Per dottrina e giurisprudenza oramai consolidata, all’atto di costituzione di un fondo patrimoniale di cui all’art. 167 c.c., deve ritenersi consentita la possibilità di apporre una clausola a mezzo della quale i coniugi – in presenza di figli minori – si riservino la facoltà di alienare, ipotecare, dare in pegno o comunque vincolare i beni del fondo senza necessità di richiedere, a tal fine, l’autorizzazione giudiziale prevista dall’art. 169 c.c.

Tale orientamento scaturisce dalla disputa interpretativa sorta attorno all’incipit dell’art. 169 c.c. laddove afferma che: “Se non è stato espressamente consentito nell’atto di costituzione, non si possono alienare, ipotecare, dare in pegno o comunque vincolare beni del fondo patrimoniale se non con il consenso di entrambi i coniugi e, se vi sono figli minori, con l’autorizzazione concessa dal giudice, con provvedimento emesso in camera di consiglio, nei soli casi di necessità od utilità evidente”.

La disputa ineriva la portata dell’espresso consenso derogatorio: quindi, se ritenerlo o meno estensibile a tutte le indicazioni del precetto normativo.

La disposizione, in assenza di espresse volontà contrarie, prevede la possibilità in capo ai coniugi di alienare, ipotecare, dare in pegno o comunque vincolare beni del fondo patrimoniale unicamente con il consenso congiunto dei medesimi, cui si deve aggiungere – nel caso di presenza di figli minori – anche la preventiva autorizzazione del Tribunale del luogo di residenza del minore, rilasciabile nelle sole ipotesi di necessità o utilità evidente dell’atto da compiere: tutto ciò, al fine precipuo di porre al riparo l’integrità del patrimonio familiare costituito in fondo patrimoniale da atti che tale scopo non abbiano.

L’orientamento della dottrina più accreditata e della giurisprudenza prevalente si pone in favore della derogabilità della norma, laddove ammette la legittimità della clausola a mezzo della quale si consente ai coniugi, in presenza di figli minori, di disporre dei beni costituiti in fondo patrimoniale senza necessità alcuna di autorizzazioni giudiziali, in tal modo consentendo agli stessi di decidere liberamente quanto rappresenti il meglio per la realizzazione dei bisogni della famiglia, fermo restando, tuttavia, il rispetto dei requisiti della necessità o dell’utilità evidente.

In buona sostanza, in presenza di siffatta clausola derogatoria, l’individuazione dei bisogni della famiglia rimarrebbe riservata esclusivamente ai coniugi, senza alcun filtro giudiziale.

Questione più dibattuta, e per la quale la letteratura in materia appare indubbiamente oscillante, è, invece, quella relativa alla derogabilità nella norma nella parte in cui richiede il consenso congiunto di entrambi i coniugi per il compimento degli atti elencati citati nell’art. 169 c.c.

Sul punto, infatti, assistiamo ad una radicale divergenza di orientamento.

Alcuna dottrina, anche illustre, connota di illiceità la clausola che dovesse derogare al richiesto consenso congiunto dei coniugi, stante l’asserita natura inderogabile delle regole dettate in tema di amministrazione della comunione legale; norme queste che, giusto il richiamo operato dall’ultimo comma dell’art. 168 c.c., regolano altresì l’amministrazione dei beni costituenti il fondo patrimoniale.

Altri commentatori, diversamente, ritengono legittimo potersi derogare alla necessità del predetto  consenso congiunto, con ciò rimettendo alla sola volontà del coniuge titolare del bene destinato in fondo patrimoniale la facoltà di disporne.

E tale orientamento possibilista prende le mosse dalla considerazione in base alla quale se è da un lato la legge non consente deroghe alle norme dettate in tema di amministrazione dei beni del fondo patrimoniale, dall’altro, tuttavia, tale assunto non potrebbe estendersi agli atti dispositivi di cui all’art. 169 c.c.,  proprio in forza dell’inciso iniziale della norma in oggetto. In altre parole, vero è che le regole sull’amministrazione devono inderogabilmente applicarsi fintantoché perdura la destinazione del bene a far fronte dei bisogni della famiglia, ma altrettanto verosimilmente non si vede come l’eventuale inserimento della clausola drogatrice del consenso congiunto possa incidere o violare tali regole generali, posto che lo scopo di detta clausola mira unicamente a riservare la legittimità dispositiva del bene al solo coniuge che ne sia titolare.

Dunque, non parrebbe irragionevole ritenere che il coniuge tanto sia libero di destinare il proprio bene in fondo patrimoniale – con ciò piegandosi al richiesto sistema di amministrazione congiunta -, quanto libero di riservarsi la facoltà di sottrarsi al medesimo limitatamente ai soli atti dispositivi di cui all’art. 169 c.c. e ciò poiché la protezione e la tutela dell’interesse della famiglia dovrebbe essere lungi dall’imporre un vincolo di indisponibilità assoluto e perpetuo nei confronti di chi abbia liberamente destinato beni alla costituzione di un fondo patrimoniale.

Diversamente argomentando, invero, ove si considerasse il vincolo sul singolo bene costituito nel fondo come vincolo non eliminabile attraverso la volontà dei coniugi, si dovrebbe ritenere il vincolo stesso come attinente ad un interesse superiore ed immanente – quello della famiglia – che prescinde dall’interesse dei singoli soggetti che ne fanno parte. Il che, se potrebbe astrattamente ritenersi plausibile nel caso di presenza di figli minori, altrettanto non lo sarebbe qualora l’interesse della famiglia corrisponda all’interesse dei soli coniugi, i quali, così com’hanno conferito il bene nel fondo patrimoniale affinché questo venga destinato a far fronte ai bisogni della famiglia, allo stesso modo dovrebbero poter sottrarre il medesimo a tale destinazione secondo le modalità stabilite nell’atto costitutivo del fondo.

Assunto questo ancor più evidente nell’ipotesi di costituzione di fondo patrimoniale da parte di terzo con riserva di proprietà in capo al costituente medesimo.

Avv. Alessandro Alessio
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